Testo e foto: Paolo Gianfelici
Con Vienna ho un rapporto che si divide in due periodi: fase 1 e fase 2. Nella prima sono stato attratto dall’atmosfera senza tempo, dalla rappresentazione della Belle Epoque sulle rive del Danubio che la città continuava anacronisticamente a offrire a se stessa e al mondo. I fiaker, le tipiche carrozze a cavalli lungo il Ring, i tram sferraglianti fuori tempo, le passeggiate nei giardini del Belvedere, le esibizioni equestri della Spanische Reitschule, le Heuriger (cantine) del Bosco Viennese, il fascino noir del castello di Mayerling.
Il manichino del poeta e scrittore fin de siécle, Peter Altemberg, con i suoi celebri baffoni e i suoi occhi tristi, seduto ad un tavolino del Café Central, era (e resta) il simbolo di quella messa in scena. “Al Café Central, ha scritto Claudio Magris in ‘Danubio’, si è insieme al chiuso e all’aperto, in un’illusione di entrambi; dalle alte vetrate della cupola, che copre una specie di giardino interno, scende una luce del giorno che fa dimenticare quei vetri, ma non potrebbe mai scendere la pioggia”. Finzione e realtà si combinano molto bene a Vienna.
L’ autentico “Mondo di ieri”, precedente la Prima Guerra Mondiale, è stato raccontato dallo scrittore Stefan Zweig con nostalgia nel 1942, in un momento storico in cui l’Austria, tragicamente, non esisteva più: “Si viveva bene, si viveva con facilità e spensieratezza in quella vecchia Vienna”, dove ognuno “Si sentiva libero da ogni angustia e pregiudizio; in nessun altro posto era più facile essere un europeo”. Negli anni Cinquanta il Paese è rinato ed ha cercato nel mitico “Mondo di ieri” un’identità che potesse essere di gradimento a tutti, dentro e fuori dall’Austria. L’operazione ha avuto grande successo in termini politici, mediatici e di marketing.
Con il Terzo Millennio molte cose sono cambiate, anche gli occhi con cui si guardano le cose. Ricordo un viaggio a Vienna in pieno inverno. La neve a chiazze sui prati grigi dei giardini e la luce plumbea del cielo rendevano molto poco “imperiale” l’atmosfera attorno alla Chiesa di San Carlo (omaggio al santo e all’omonimo sovrano) e alle due Colonne, imponenti imitazioni della colonna di Traiano, create con una fusione di Neclassico e Barocco. Il Ring con gli alberi spogli e senza le corse al trotto dei Fiaker mi è apparso anonimo. Sulla Kärtnerstrasse ho cercato inutilmente i caffé, dove anni prima avevo gustato l’Einspänner (caffé con la panna): gli uffici di alcune banche arabe li avevano sostituiti. Mi sono dovuto accontentare di una fetta di torta, seduto su uno sgabello precario, stretto tra gli avventori di in una depandance del celebre Café Sacher.
Allora ho iniziato ad esplorare un’altra Vienna che prima non avevo conosciuto. Ad esempio il Naschmarkt, un luogo dove turchi, arabi, slavi espongono frutta, verdura e street-food e dove si tocca con mano la dimensione multietnica della città, altrimenti latente nella sua fisionomia generale. Oppure le vinoteche dietro il Duomo di Santo Stefano, dove ho scoperto che in Austria si producono rossi del Burgenland e di Wachau di altissimo livello.
Una sera ho proseguito il cammino in direzione Donau Kanal. Due ponti illuminanavano di viola e rosso l’acqua con vivacità. Sull’altra riva del fiume un grande edificio mi stupiva per le sue ardite linee architettoniche. Nei primi piani, sul lato sinistro, l’architetto aveva incuneato un enorme spazio vuoto che sembrava mettesse in pericolo la statica del palazzo. I piani alti erano sostenuti (o così appariva) solo da due altissimi pilastri che puntavano verso un soffitto illuminato da vetrate colorate. All’interno, oltre ad un Hotel Sofitel, c’era un grande magazzino dedicato a raffinati prodotti di design. Le scale mobili si muovevano come nastri luminosi, in vena di trasformarsi in performance artistiche. Dal soffitto pendevano lunghi arazzi con motivi geometrici e la parete esterna, protetta da un vetro, era completamente ricoperta dalla vegetazione verticale, messa insieme con colori e forme che sembravano ispirati ad un quadro di Gustav Klimt.
Il giorno dopo ho attraversato il portone di un edificio anonimo: le antiche stalle imperiali. Nell’ampio cortile ho scoperto due grandi cubi. Uno chiaro, il Leopold Museum e l’altro scuro il MUMOK. Il MuseumsQuartier era stato da poco aperto. Da allora, ogni volta che arrivo a Vienna, non ho mai smesso di frequentare le sue collezioni, le gallerie, gli spazi per le performance artistiche e di sedermi per una breve pausa ai tavolini dei suoi eccellenti caffé.