Dresda (TidPress) – Quando si comincia a cercare qualche elemento architettonico o d’atmosfera di Dresda in altre città, si comprende con quanta intensità la capitale della Sassonia si sia ritagliata uno spazio privilegiato nei ricordi del viaggiatore che l’ha visitata. Si sa tutto e non si sa nulla di questo luogo noto per la tragicità degli eventi avvenuti qui durante la Seconda Guerra Mondiale (il bombardamento anglo-americano ha raso al suolo la città nel febbraio del 1945) e su cui si è posato il “velo” del comunismo durante la DDR e fino al 1989. Lo schiacciasassi della storia è andato avanti e quando arrivo a Dresda una sera d’estate a colpirmi, una volta uscita dalla monumentale stazione, è l’ampio respiro delle sue strade. Mi trovo davanti viali ordinati e poco trafficati e non mi rendo subito conto che proprio questo rincorrersi tra vuoti e vitalità, è una delle caratteristica di una città che senza darlo a vedere apertamente, chiede di essere adottata. Un po’ come un bambino difficile e ritroso, Dresda è capace di grandi slanci emotivi, ma bisogna lasciarle il tempo di esprimersi. Le mie personali carezze comincio a fargliele subito: salgo su un modernissimo tram e dalla stazione in poche fermate raggiungo il centro storico. Il buio della notte si è attardato in qualche faccenda straordinaria e quando giro l’angolo prima della piazza Neumarkt, anche se sono le otto di sera, il cielo che avvolge e mette in risalto le pietre gialle della Frauenkirche è ancora di una bella nota blu chiaro. La chiesa e la grande piazza che le fa da damigella sono una visione degna di un effetto speciale voluto da un regista per sottolineare al massimo la scena madre del suo film più spettacolare.
Dresda è bella e rimango un po’ confusa davanti a questo profilo esteticamente perfetto. La piazza enorme, tanto da inglobare i sospiri di meraviglia, che immagino facciano compagnia al mio, di tutti i turisti con un’aristocratica nonchalance. Non so bene dove fissare lo sguardo. La chiesa è come un polo d’attrazione e la sua cupola a forma di campana svetta sugli altri edifici come il simbolo di una rinascita, ma impressiona anche chi non la collega al lungo restauro conclusosi una manciata di anni addietro. La chiesa è circondata da palazzi moderni ma dal sapore antico. A catturare la mia attenzione sono soprattutto le fila di abbaini allineati sui tetti una sopra l’altro come per sfruttare sia lo spazio che l’elemento decorativo. Mi aggiro in questa vastità fino a quando lo spazio si restringe in una via in dolce discesa verso il fiume. Qui la notte di Dresda è vivace e un pizzico troppo turistica con i locali che si susseguono uno accanto all’altro e a volte non offrono cibi propriamente tipici del luogo, come il Canadian Steakhouse “Ontario”. La strada termina sotto un ponte e dall’altra parte l’idea di Dresda degli ampi spazi si allarga nella visione dell’Elba e delle sue rive larghissime e ricoperte d’erba.
L’indomani il mio giro emozionale riprende proprio da lì. Guardare l’arioso percorso del fiume dalla terrazza panoramica è come fare esercizi di respirazione yoga all’alba. La vista di tutto quello spazio aperto sul quale il fiume si muove placidamente, arricchito sui due lati dalla presenza architettonica della città mi riempie la mente di serenità. Lascio la visione del fiume e giro un po’ senza una meta particolare tra le vie e le piazze del centro storico. Osservo e Dresda mi mostra a flash brani della sua storia: la ricchezza barocca del cortile reale, lo Zwinger, il nerofumo delle esplosioni che ha lasciato su alcuni edifici la sua patina come un monito eterno, gli spazi vuoti ancora esistenti tra una casa e l’altra dove la ricostruzione non è ancora arrivata e forse non ci sarà mai. Ma soprattutto la gradevolezza architettonica di una città che sa miscelare il vecchio con il nuovo e conosce a menadito l’arte del restauro. Mi siedo nella caffetteria di uno dei bastioni che racchiude lo Zwinger. L’immagine che mi offre qui Dresda di sé è come scomposta in una pioggia di pregiati particolari architettonici: la corona dorata, l’orologio con il carillon con la cascata di campanelli argentati, il monogramma di Augusto il Forte – le due spade incrociate – scolpito nel marmo e tante statue. Queste figure più o meno candide o scurite dal tempo sono una sorta di popolazione silenziosa della città e rimanendo a guardarle, si prova il desiderio di passare qualche ora al posto loro, immobili, a fissare la città negli occhi e a goderne ogni battito d’ala. Anche dalla mia postazione meno panoramica mi rendo conto che Dresda è una città che sa volare e coinvolge chi lo desidera nel suo viaggio nel tempo e nello spazio. Ritorno a percorrere la strade del centro con questa nuova consapevolezza e quando alzo gli occhi davanti al castello, noto un lampione che affianca le linee aggraziate della residenza dei duchi di Sassonia: il vetro non si limita a lasciar passare l’immagine del cielo, ma ne cattura la luce per illuminare la bellezza di una città che profuma di spazi aperti e sprigiona un discreto desiderio di farsi ammirare.
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